Gigi

Quando l’ho conosciuto ero un dottore di ricerca alle prime armi, che galleggiava tra incarichi e studi più o meno saltuari (e retribuiti) e arrotondava facendo pagine web o vendendo mocassini (allora non ci si faceva ancora chiamare – ne avevamo la pretesa di considerarci -“precari della ricerca”). Senza troppi giri di parole, con quel suo modo di fare colorito e diretto, che, come spesso succede in questi casi, in realtà mascherava una grande sensibilità, il Falossi mi telefonò, proponendomi di fare un lavoro insieme. Scrivere la storia della “sua” fabbrica. La fabbrica era la Stice-Zanussi e la fase era particolare: quella tra gli anni sessanta, con il ’68 e l’autunno caldo, e l’inizio degli anni ’70. Anni tosti.

Ne venne fuori un libro, fatto di memorie, di documenti, di riflessioni, persino di poesie. Qualcosa, rivedendolo oggi, magari non molto ortodosso sul piano storiografico, ma forse proprio per questo ancor più prezioso. In quel libro la “fabbrica che non c’era” (il perché di questo appellativo è troppo lungo qui da spiegare) riprendeva vita insieme ai suoi operai. Fu molto di più di un libro: ad un certo punto, quando ad esempio riunimmo i componenti del Consiglio di fabbrica, addirittura si tramutò una specie di seduta di analisi collettiva. Per me poi, che la fabbrica l’avevo conosciuta attraverso i racconti di mio padre, quei mesi trascorsi fianco a fianco furono molto di più. E lui credo lo avesse capito. Che quelle cose che scrivevamo, che le cassette che registravamo e sbobinavamo facevano in fondo parte anche della mia storia e non erano solo una delle tante ricerche che all’inizio si fanno solo per “imparare il mestiere”. Quel lavoro non è stato l’unico che abbiamo fatto insieme. Ma ha davvero significato molto per me.

Mi accorgo adesso quanto sia difficile far capire a chi non lo abbia mai incontrato in poche parole e senza retorica (che lui giustamente odiava) chi fosse, anzi, chi è Luigi Falossi. Operaio metalmeccanico, sindacalista, intellettuale. Un Operaio di quelli con la O maiuscola, che leggono, studiano, lottano e s’incazzano. Di quelli con pochi fronzoli, prendere o lasciare. Che vogliono capire. Che sono attenti al passato ma che guardano – ma sul serio però – sempre avanti. Che sempre e fino all’ultimo sono una miniera d’idee e di progetti. Che non gliene frega niente chi sei o chi ti credi di essere. Di quelli che quando ti nasce un figlio vengono da te e quasi timidamente, scherzandoci su, ti regalano Un genitore quasi perfetto (ce l’ho ancora quel libro, sai?). Che magari ti rimbrottano al telefono perché è un pezzo che non ti fai vedere ma che lo capisci che ti vogliono bene. Di quelli che non si arrendono nonostante tutto. Che forse non ce ne sono più. E non ne nascono più.

Volevo dirti grazie, Gigi.

E che fra poco passo a salutarti.

La guerra di Kokoschka

Seguendo il dipanarsi della storia del Novecento siamo arrivati a parlare delle vicende legate alla seconda guerra mondiale e agli eventi che la precedettero: l’Anschluss, la Guerra di Spagna, la Conferenza di Monaco. Da uno scambio di battute con una amica e collega è venuto fuori un riferimento al quadro, L’uovo rosso, che Oskar Kokoschka dipinse pensando proprio al Patto che segnò il destino della Cecoslovacchia. Quel quadro non è però l’unico lavoro che l’artista realizzò pensando a quella tragica stagione della storia d’Europa e del mondo. Ecco allora, con le sue stesse parole come commento, quelli che Kokoschka definì i suoi quadri politici, dipinti tra il 1939 e il 1943.

L’uovo rosso

L’uovo rosso fu dipinto tra il 1939 e il 1941. Si vede un pollo arrosto – la Cecoslovacchia – che vola via e depone sul piatto un uovo rosso. Nello sfondo Praga brucia. Intorno al tavolo siedono Mussolini e Hitler con un elmo di carta, sotto al tavolo c’è un gatto con un cappello da Napoleone e una coccarda e dietro, con la coda che forma il segno della sterlina, il leone inglese su di un piedistallo con l’iscrizione: ‘In pace Munich’. Il quadro fu a suo modo profetico.

Alice nel Paese delle meraviglie e Lorelei

 

Nel 1942 ne ho dipinto un altro, Alice nel paese delle meraviglie, sull’Anschluss dell’Austria, e poco dopo la Lorelei. Si vede la Gran Bretagna che ha perduto la supremazia sui mari, un polipo si allontana con il tridente, l’emblema della potenza marina. La regina Vittoria, che ha creato la potente flotta inglese, è a cavallo di un pescecane e gli riempie la bocca di marinai bianchi, olivastri e neri. Solo la rana sulla sua mano rifiuta di accettare lo stesso destino: rappresenta l’Irlanda, dove non ci sono altri rettili che le rane.

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Il sipario strappato. Quando lo sport diventa dramma

E’ uscito per le Edizioni Scientifiche Italiane il volume, curato da Saverio Battente, Sport e società nell’Italia del ‘900 nel quale è contenuto un mio contributo dal titolo Il sipario strappato. Sport, tragedie e cronaca nera.

Le imprese sportive in molti casi rappresentano uno specchio fedele, talvolta impietoso, della nostra società. il mio intervento fornisce un breve panorama delle modalità e del linguaggio con cui sono stati comunicati e sono poi entrati a far parte dell’immaginario collettivo alcuni episodi tragici che, in modo diverso, hanno interrotto o violato la sacralità della “liturgia ludico-sportiva” e dei suoi attori. Da Superga a Vincenzo Paparelli. Da Rubin “Hurricane” Carter a Gigi Meroni,  da Re Cecconi fino all’Heysel.

“Siate tutti uniti!”

Il 15 ottobre del 1940, in piena seconda guerra mondiale, usciva Il Grande dittatore. E Chaplin, che fino a quel momento aveva continuato ad impersonare il suo Charlot senza aprir bocca, stavolta se ne uscì fuori con un monologo da lasciare senza fiato.

 

Quando alla Taverna del Pellicano si inventarono il reddito minimo garantito

Sempre seguendo il filo degli argomenti trattati a lezione, un post che propone alcuni spunti di riflessione attorno alle vicende connesse al processo di formazione delle moderne politiche di protezione sociale. Si tratta di un contributo, pubblicato da Raffaele Romanelli all’inizio degli anni ’80, incentrato sul cosiddetto “sistema di Speenhamland”, un buon punto di partenza per comprendere la portata “rivoluzionaria” (e per certi versi anticipatrice di alcune recenti riforme) delle decisioni prese dagli amministratori delle Poor Laws di elisabettiana memoria nel maggio del 1795. E ovviamente ciò che ne seguì.

 

 

 

Eric J. Hobsbawm (1917-2012)

Il mio obiettivo è di comprendere e spiegare perché le cose siano andate in un certo modo e come i fatti si colleghino tra loro. Per tutti i miei coetanei, che sono vissuti lungo tutto il Secolo breve o per gran parte di esso, questo compito è anche, inevitabilmente, uno sforzo autobiografico. Parliamo dei nostri ricordi, ampliandoli e correggendoli, parliamo come uomini e donne di un tempo e di uno spazio particolari, coinvolti, in varie guise, nella storia; ne parliamo come attori di un dramma – per quanto insignificanti siano state le nostre parti – , come osservatori del nostro tempo e, non da ultimo, come persone le cui opinioni sul secolo sono state formate da ciò che noi siamo giunti a considerare come eventi cruciali. Noi siamo parte di questo secolo ed esso è parte di noi. I lettori che appartengono a un’altra epoca, per esempio lo studente che accede all’università nel momento in cui questo libro viene scritto, per il quale perfino la guerra del Vietnam rientra nella preistoria, non dovrebbero dimenticarlo.

Eric J. Hobsbawm, storico.

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