La cultura del cambiamento e quella del rattoppo

beveridge

Nel preparare l’intervento per il seminario in programma a Venezia il prossimo 20 febbraio, ho ripreso in mano il testo indirizzato al governo britannico da William Beveridge (che era un liberale progressista e non un pericoloso bolscevico), che accompagnò le proposte di riforma del sistema di protezione sociale.

Qui, tra le varie  considerazioni e dichiarazioni di principio ce ne sono alcune di ordine generale che, fatti i debiti distinguo riguardo il contesto temporale (ma già sostituire “guerra” con “crisi” aiuta) e geografico, rappresentano, forse, una lezione di metodo anche per l’oggi e anche per certe latitudini – le nostre – dove la cultura riformistica, tanto nel campo moderato come pure in ampi settori della sinistra, ha tradizionalmente avuto peso assai modesto e, quel che è ancor peggio, esiti il più delle volte deludenti.

Ecco il passo:

Ogni nuova proposta per l’avvenire – scriveva Beveridge (era il 1942) – pur approfittando dell’esperienza acquisita in passato non deve essere limitata da quelle considerazioni di categoria di dettaglio consolidatesi nell’ottenere tale esperienza. E’ proprio adesso, con la guerra che tende ad eliminare ogni genere di limitazioni e di differenze, che si presenta meglio l’occasione di usare l’esperienza acquisita, in un campo fatto libero. Un periodo rivoluzionario nella storia del mondo è il momento più opportuno per fare cambiamenti radicali invece di semplici rattoppi.

Radici ed evoluzione del “welfare socialdemocratico”

E’ uscito all’interno del terzo fascicolo del 2012 della rivista Sociologia e politiche sociali (numero curato da Andrea Bassi che affronta da prospettive differenti le varie sfaccettature del rapporto tra religioni e politiche sociali e più in generale dello “spirito” dei modelli di welfare state in Europa in una prospettiva di lungo periodo) un mio articolo intitolato La Gerusalemme celeste in terra. Radici ed evoluzione del “welfare socialdemocratico“. Il richiamo nel titolo è al Jerusalem speech tenuto da Clement Attlee, leader laburista, al Congresso di Scarborough del 1951. Si parte parlando del labour ma, più in generale, si tratta di come la “famiglia” del socialismo europeo si sia rapportata alle politiche di protezione sociale. Dalle “tetre fabbriche di Satana” della Rivoluzione industriale alla golden age. Fino alla attuale crisi del welfare state.

Se alla fine (come al solito) ci pensa la famiglia

welfare_reformTralasciamo per un attimo la questione di come si possa ragionevolmente pensare  che la scuola pubblica che, come ben sanno tutti i genitori italiani, già fatica ad andare avanti per la mancanza di risorse con il calendario didattico vigente riesca a funzionare (e bene) per 11 mesi l’anno, e soffermiamoci invece  sull’idea di fondo che pare ispirare una delle proposte ventilate ieri dal presidente del Consiglio uscente.

Anche se generico, quel richiamo alla “partecipazione volontaria delle famiglie” sembra voler ritagliare un ruolo rilevante proprio per queste ultime in quella che appare una ipotesi di riassetto (l’ennesimo) del sistema educativo. Fin qui nulla di male. E neanche nulla di particolarmente nuovo. Da tempo, in certi casi da sempre per via di una radicata tradizione in tal senso presente nel nostro paese, e più recentemente per il concomitante arretramento dello Stato sociale, dovuto alla sua crescente crisi di sostenibilità, le famiglie svolgono un compito di questo tipo non solo in campo educativo ma più in generale in campo sociale.

Nel corso di questi ultimi decenni, ad integrare quel “primo welfare“, di natura pubblica, sempre più in difficoltà si è man mano sviluppato quello che qualcuno ha chiamato il “secondo welfare“, ovvero una rete di servizi erogata da vari soggetti di natura privata o non profit (il cosiddetto “terzo settore”): imprese, assicurazioni, fondazioni bancarie (sì, proprio loro), associazioni, organizzazioni filantropiche, sindacati e altri enti. Il principio ispiratore che muove questo variegato settore è quello della sussidiarietà e l’idea che lo muove, per usare una espressione mutuata dall’inglese, è quella della welfare community, principi cardine, peraltro, per una parte importante di quella cultura sociale cattolica alla quale sotto molti aspetti Scelta Civica sembra volersi richiamare. E anche qui nulla di male – anzi bene – poiché in attesa che nasca un nuovo Beveridge (ammesso che Beveridge sia la risposta ai mali del welfare del XXI secolo) e soprattutto di margini di manovra pubblici in termini di finanziamento per i servizi sociali, forse proprio questo welfare mix appare una delle poche ipotesi praticabili, almeno nell’immediato, per scongiurare un ulteriore drammatico ridimensionamento della sicurezza sociale che, diciamolo subito a scanso di equivoci, così com’è non funziona proprio (ma anche questa non è una novità).

In attesa di capire meglio che cosa si intendesse con quelle stringate battute diffuse ieri dalla stampa (ma c’è già stata una precisazione) il dubbio risiede proprio nel ruolo che ancora una volta si vorrebbe assegnare alla famiglia, una famiglia – ricordiamolo – che oltretutto, sottoposta com’è a tensioni, sollecitazioni e trasformazioni di vario genere non se la passa più bene come un tempo. Non dimentichiamoci che le famiglie sono già chiamate – e da molto, come si è detto – a svolgere la funzione di primo (spesso unico) ammortizzatore sociale nel campo del mercato del lavoro, dell’alloggio, della cura e dell’assistenza agli anziani, nel sostegno delle madri e in mille altre questioni, tra le quali proprio quelle legate all’istruzione e alla cura dei figli. E’ vero che, per quanto soffrano, resistono ma è altrettanto vero che sono sempre più sole e, come ribadiscono alcune notizie di oggi, prive di sostegno.

Gli interrogativi dunque sono molti. In generale: siamo sicuri che questo sistema di welfare community sia già così articolato, efficiente, radicato sul territorio, integrato con il primo welfare e con le sempre più traballanti istituzioni locali da consentire ai nuclei familiari di reggere un peso che si fa di giorno in giorno, stante la crisi, più gravoso? Si dirà che la proposta di cui sopra intende rispondere esattamente a questa esigenza, venendo incontro proprio alle famiglie, in particolare di quelle con entrambi i genitori che lavorano, nell’accudire i figli dopo la conclusione dell’anno scolastico. Giusto. Ma allora, entrando nello specifico, dev’essere proprio e soltanto la scuola, anzi questa scuola, a svolgere tale funzione? E soprattutto, tornando alle perplessità iniziali, davvero si pensa che sia questo il momento di rilanciare su questioni rilevanti e delicate come l’istruzione, in assenza di risorse certe, senza aver prima sciolto i nodi esistenti?

Quando alla Taverna del Pellicano si inventarono il reddito minimo garantito

Sempre seguendo il filo degli argomenti trattati a lezione, un post che propone alcuni spunti di riflessione attorno alle vicende connesse al processo di formazione delle moderne politiche di protezione sociale. Si tratta di un contributo, pubblicato da Raffaele Romanelli all’inizio degli anni ’80, incentrato sul cosiddetto “sistema di Speenhamland”, un buon punto di partenza per comprendere la portata “rivoluzionaria” (e per certi versi anticipatrice di alcune recenti riforme) delle decisioni prese dagli amministratori delle Poor Laws di elisabettiana memoria nel maggio del 1795. E ovviamente ciò che ne seguì.

 

 

 

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