Il Vajont, 54 anni dopo

Oggi è il 54° anniversario del disastro del Vajont.

Di seguito, per ricordare questo terribile evento, destinato a segnare profondamente non solo le comunità locali ma l’intera nazione, una parte del testo finale redatto dalla Commissione ministeriale d’inchiesta sulla sciagura, consegnato nel gennaio del 1964 all’allora ministro dei Lavori Pubblici Giovanni Pieraccini, recentemente scomparso.

Un estratto del testo (scaricabile in fondo alla pagina in formato pdf) è stato ripubblicato nel 2016 nel volume Un banco di prova edito per i tipi Lacaita.

 

Onorevole ministro,
alle ore 22,39 del 9 ottobre 1963, il movimento franoso delle pendici del Toc, già in atto da tempo, sulla sinistra del Vajont, assumeva un andamento precipite, irruento, irresistibile. L’acqua del lago artificiale, alla quota di 700,42 m. sul livello del mare, subiva una formidabile spinta: con andamento pauroso, si calcola di 50 chilometri all’ora, la frana avanzava su un fronte di circa 2 chilometri a monte della diga; raggiungeva, così, la sponda destra, urtava contro questa, vi scorreva sopra, superando, in alcuni punti, di 100 metri la quota iniziale.
La tremenda pressione della massa, che aveva conservato la sua unità, spostava, con violenza mai vista, un volume di 50 milioni di metri cubi di acqua.
Fenomeno apocalittico, un’onda si sollevava fino a 200 metri, per ricadere, paurosa, irradiandosi in parte verso la diga, in parte verso il ramo interno del lago.
Non più contenuta, la prima, con un volume di circa 25 milioni di metri cubi, superava la diga, si lanciava nella gola, proiettandosi poi, tumultuosa, verso la valle del Piave. Irrompeva così, sventagliandosi, flagellando, inesorabile, violenta, rapida – 1600 metri in quattro minuti circa – sull’ampio scenario, che si schiude, di sotto. Le luci, palpiti di vita, d’industria feconde, operose, di Longarone, di Pirago, della sponda di Fornace, di Villanova, di Faé, dei borghi di Castellavazzo e di Codissago, della cartiera, allo sbocco della gola, improvvisamente si spengono: con esse migliaia di vite umane. Il fiume, improvvisamente ingrossato, assume un aspetto di piena mai vista; danneggia Severzene, Belluno, prosegue, poi, dopo 80 chilometri, placato a trovar pace verso il mare.
Nell’interno del lago, l’acqua residuata dell’onda investe Pineda: l’onda si riflette, va a colpire S. Martino, risalendo verso il passo di Sant’Osvaldo: case, borghi, abitati da poveri contadini, sono distrutti: con essi altre vite umane.
Cinque rapidi intensi minuti sono stati sufficienti al compiersi della tragedia: due umili spettatori, espressione di altissimi valori umani, assistono al fenomeno: a monte, il parroco di Casso, don Carlo Onorini, il quale, trepidante, vigilava sulle luci dei riflettori che seguivano il movimento franoso; a valle, sotto la diga, il carabiniere Riccardo Aste, inviato pochi minuti prima, in servizio di sicurezza; una fiamma di luce bianchissima – la distruzione, in tempi brevemente differenziati, di due linee di trasporto ad alta tensione, a monte e a valle della gola – una colonna altissima di acqua, mista a sassi, che assumeva, nel bagliore della bianca luce, un colore denso, lattiginoso, grigiastro, l’arco dell’onda, proiettandosi nella valle; un fragore assordante, un precipitare di massi, di pietre, di terra.
Sullo scenario di morte, sovrastava, intatta, la diga, creazione umana, gloria della tecnica italiana: non vinta ma superata dalla natura.

[…]

Coerente con le premesse, la Commissione ha considerato gli eventi, con riferimento ai pubblici poteri. Questi dovevano garantire l’opera, agli effetti della pubblica incolumità.

La Commissione si limita, perciò, a considerare il formale meccanismo normativo e si sarebbe quasi tentati di attrarre in questa visione, anche il mirabile manufatto, gloria della tecnica italiana – e di motori, deve riconoscersi, che il primo è, nel caso concreto, come sopraffatto dalla insufficienza di alcuni uffici, cioè di singoli motori.

Si è rivelata, così, esatta l’affermazione di Tocqueville, secondo il quale «non è tanto il meccanismo formale delle leggi quello che conta, quanto la forza dei motori».

Le constatazioni che seguono, pertanto, se individueranno un’eventuale manchevolezza nell’ordinamento, daranno necessariamente la prevalenza, però – come si è detto – al funzionamento di alcuni uffici.

Le modalità con le quali gli organi responsabili hanno agito, le modalità, cioè, che precedettero il tragico evento, possono sintetizzarsi nella constatazione di una generale discrasia.

Discrasia, cioè dispersione, non concorso, meglio coordinamento, all’effetto di ricercare, utilizzando diverse, qualificate competenze, una soluzione coerente. È mancato, nella fase che ha preceduto l’evento, la valutazione, il giudizio, qualunque esso fosse, un giudizio, si vuol dire, dato da chi poteva e doveva farlo. È mancata la consultazione consapevole, individuale o collegiale. Eppure, proprio 20 giorni prima il 18 settembre, si era sentito bisogno di una riunione, per utilizzare varie competenze, agli effetti di una meditata decisione, proprio in previsione di un evento, che preoccupava.

L’osservazione si riferisce a tutti gli organi, statali e non statali.

Si comincia dai Prefetti. Il Prefetto di Udine aveva avuto l’allarme dal Sindaco di Erto, dai primi di settembre; non comunica al collega di Belluno, sul cui territorio la diga anche gravava, il documento. Il Genio Civile di Udine, che ne era anch’esso destinatario, non informa quello di Belluno, competente per i problemi tecnici della diga, della lettera.

Di fronte alla commissione fatta personalmente da un ingegnere dell’ENEL-SADE, della necessità di sfollare parte, benché modesta, del territorio della provincia, il Prefetto di Udine si limita a delegarne la competenza al Sindaco, senza accertare – mediante organi a disposizione – quale fosse la reale situazione, quali le cause del grave provvedimento.

Notisi, ancora, che la richiesta veniva dal concessionario (ENEL-SADE), anche se ente pubblico: sarebbe stato opportuno conoscere, attraverso l’organo statale responsabile, cioè il Genio Civile, come stessero le cose.

La competenza del sindaco, in materia, è surrogatoria, e determinata soltanto da situazioni di assoluta emergenza: la responsabilità, e , perciò, la competenza del provvedimento appartiene, di regola, al Prefetto: questi, una volta delegato al Sindaco, il giorno 8, lo sgombero, doveva rendersi conto, attraverso gli organi governativi, della entità del fenomeno, anche agli effetti di ulteriori provvedimenti (non bisogna dimenticare che la catastrofe avvenne oltre 24 ore dopo l’ordinanza di sgombero).

La diga era molto vicina al capoluogo della provincia di Belluno. Il prefetto ha detto di ignorare lo stato d’animo dei cittadini di Longarone, che pure avevano ufficialmente protestato presso il Genio Civile, quello dei cittadini di Castellavazzo. Egli ha, anzi, dichiarato di essere stato sempre all’oscuro di ogni cosa. In verità, nell’assumere servizio nella provincia, egli avrebbe potuto conoscere i precedenti della diga: un processo penale di una certa risonanza, la frana del ’60, piuttosto seria; le interrogazioni alla Camera, le proteste dei cittadini; le attività di organi pubblici (si ricordano le controversie tra la provincia di Udine e quella di Belluno, proprio a proposito della diga e i pericoli di questa).

L’Ufficio del Genio Civile si è dimostrato poco adeguato ai suoi compiti. È stato chiaramente accertato che questo ufficio – che aveva, in passato, funzionato egregiamente – si era inaridito, praticamente, burocratizzando le sue funzioni, affidandosi eccessivamente al concessionario. Le proteste, il richiamo dei cittadini, che si erano rivolti all’Ufficio, come organo di tutela per la sicurezza dell’opera pubblica, erano stati trasmessi, come normali pratiche, al concessionario, il quale addirittura si era incaricato di comunicare direttamente la risposta. Si accentuava così, nel pubblico, la sensazione della inutilità dell’azione statale, che non interveniva in modo autonomo e che era quasi in stato di subordinazione a quello dell’ENEL-SADE. Si ascolta la raccomandazione dell’ing. Caruso, di non allarmare, mentre proprio questa doveva accentuarne il senso di vigilanza. Al Genio Civile, organo locale, spettava invece, se non l’adozione diretta di provvedimenti di emergenza, per lo meno l’obbligo di segnalare, dopo essersene reso direttamente conto, all’autorità prefettizia la situazione.

Si indugia, perdendo tempo prezioso, nell’attesa di rapporti scritti, di dati, di elementi di giudizio, formalizzando, burocratizzando una situazione, che richiedeva azione pronta, immediata. Manca, in fondo, l’iniziativa, la decisione indispensabile in quel momento: qualunque essa fosse, ma una decisione meditata, consapevole, frutto di ragionamento, espressione dei poteri, che la legge affida all’ufficio.

Per quanto riguarda gli organi dell’ENEL-SADE, pur riconoscendosi che la successione di due ordinamenti poteva presentare difficoltà nella ricerca delle competenze, tuttavia le azioni individuali risultano inadeguate. L’ing. Pancini lascia la diga, di cui aveva la direzione, il 18 settembre, dopo la riunione, senza effettuare la consegna al sostituto, ing. Caruso: egli non si sentiva, però, tranquillo, se telefonava per avere notizie, che gli si inviavano anche in America.

Colpisce l’ansiosa ricerca di organi, che potessero emettere un qualsiasi giudizio. Si è sostenuta vivacemente, da più parti, l’autonomia completa, conferita a coloro, che erano preposti ai rami di servizio, autonomia espressamente conservata col passaggio alla nuova gestione. La Commissione non intende indagare se, e fino a che punto, questa organizzazione quale si desume dalla lettera, dell’Amministratore provvisorio, pervenuta il 26 dicembre u.s.; né, ancora, se il decentramento potesse valere in presenza di una situazione di emergenza, nella quale l’elemento tecnico poteva venire a confluire in una valutazione discrezionale circa l’opportunità di adozione di provvedimenti che, che riguardavano l’incolumità pubblica, cioè la diligenza, di cui il dato tecnico è soltanto elemento di valutazione. Ciò perché, in punto di fatto, l’affermato principio dell’autonomia degli organi è il risultato attenuato, e , in certo senso, contraddetto: il che può consentire a limitarsi a quelli che sono stati gli effettivi protagonisti degli ultimi avvenimenti.

L’ing. Biadene, che era a diretta conoscenza della situazione (v. la lettera del 9 ottobre all’ing. Pancini) ha dichiarato che egli «non aveva pensato alla zona di Longarone», perché partiva dal presupposto dei geologi, i quali dicevano che ci si sarebbe trovati di fronte ad una frana di assestamento di sponda, e che comunque, con i risultati delle prove su modello, riteneva ormai – almeno all’ultimo giorno – di avere raggiunto la quota di sicurezza. Malgrado ciò, egli non si stente tranquillo, avverte Baroncini che – egli afferma – «era il responsabile» (evidentemente egli vuol riferirsi alla competenza) e lo prega di «fare in modo di venir su con la Commissione di collaudo»: ciò perché «nella Commissione di collaudo c’è un geologo, il quale può dire a quale fenomeno ci si trovi di fronte». L’ing. Baroncini segue Biadene nel consiglio e si rivolge al prof. Penta. Ma la scelta cioè l’invito, non era, in quel momento, appropriato: il professore, infatti, membro della Commissione di collaudo, non aveva competenza ad emanare o suggerire i provvedimenti, che in quel momento occorrevano.

Non solo, dopo la relazione dell’ottobre 1961, con le prescrizioni in essa contenute, l’attività della commissione di collaudo era stata pressoché nulla. Aggiungasi che l’intervento Penta sarebbe avvenuto, come questi ha dichiarato, a titolo personale. Non era, infatti, convocata la Commissione di collaudo, e neppure il professore si recava personalmente sul posto. Il direttore centrale aveva, infatti, stabilito di recarsi al Vajont, insieme con l’assistente del prof. Penta, prof. Esu.

Vi era ancora, lo si è visto, un direttore generale della vecchia SADE, mantenuto dall’ENEL nelle sue precedenti funzioni, a Venezia: a lui, che si trovava a Rapallo, per ragioni di servizio, l’ing. Biadene dà notizia, sia pure a titolo informativo, dello svolgersi degli avvenimenti e dei provvedimenti, adottati e in corso di adozione. L’iniziativa di rivolgersi al Servizio dighe era stata dell’ing. Biadene e dell’ing. Baroncini. Della situazione, manifestatasi nel settembre, il Ministero avrebbe dovuto essere a conoscenza, sia pure sommaria, attraverso la lettera, sopra richiamata, del Comune di Erto e della risposta della SADE, diretta al Servizio dighe, delle quali però non si è trovato traccia negli atti e neppure nei registri di archivio ministeriali.

La telefonata all’ing. Sensidoni, assente dall’ufficio, fu fatta la mattina del mercoledì, 9 ottobre, sempre su consiglio dell’ing. Baroncini. Della telefonata veniva data notizia, lo stesso giorno, all’ing. Batini, capo del servizio, il quale poteva, così, mettersi nel pomeriggio del giorno 9, a contatto con l’ing. Biadene e successivamente con l’ing. Violin, capo del Genio Civile di Belluno. Il presidente Batini dà suggerimenti da lontano, ma non può avere, attraverso una telefonata – e dal concessionario per giunta – la visione concreta, soprattutto con riferimento ai provvedimenti che potevano essere adottati, a tutela della sicurezza pubblica, né può ascoltare, perché assente per servizio, l’ing. Sensidoni. Quanto poi alle notizie che il Presidente Batini poteva avere dall’ing. Violin – il quale nulla sapeva direttamente – queste valevano assai poco. Dimodoché il Servizio dighe, non poteva, nel pomeriggio del 9, esercitare le funzioni nella loro pienezza: dovendo soprattutto fidarsi delle notizie che il concessionario gli dava.

Ciò spiega l’invito all’ing. Violin a telefonare l’indomani per avere una visione diretta dell’organo locale competente.

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