Arrivederci professore

La sala di aspetto della presidenza, in via Laura, una tesi di seicento pagine fatta con l’entusiasmo, l’ingenuità e l’incoscienza dei vent’anni, il dottorato, il cuore in gola per le lezioni e gli esami stavolta fatti dall’altra parte della barricata, in una Università che non c’è più. I primi passi verso un futuro tutto da scrivere, lo spaesamento di fronte a un mondo fino ad allora distante e sconosciuto. I sacrifici, le gioie, le delusioni. E tutto il resto.

E’ morto Luigi Lotti.

If

Qualche volta la vita capita davvero quando sei impegnato in tutt’altri programmi. Ed è comunque qualcosa di bello. Persino quando, dopo aver fatto capolino, questa se ne vola via. Leggera come era arrivata. Lasciandoti un’altra cicatrice.

Gigi

Quando l’ho conosciuto ero un dottore di ricerca alle prime armi, che galleggiava tra incarichi e studi più o meno saltuari (e retribuiti) e arrotondava facendo pagine web o vendendo mocassini (allora non ci si faceva ancora chiamare – ne avevamo la pretesa di considerarci -“precari della ricerca”). Senza troppi giri di parole, con quel suo modo di fare colorito e diretto, che, come spesso succede in questi casi, in realtà mascherava una grande sensibilità, il Falossi mi telefonò, proponendomi di fare un lavoro insieme. Scrivere la storia della “sua” fabbrica. La fabbrica era la Stice-Zanussi e la fase era particolare: quella tra gli anni sessanta, con il ’68 e l’autunno caldo, e l’inizio degli anni ’70. Anni tosti.

Ne venne fuori un libro, fatto di memorie, di documenti, di riflessioni, persino di poesie. Qualcosa, rivedendolo oggi, magari non molto ortodosso sul piano storiografico, ma forse proprio per questo ancor più prezioso. In quel libro la “fabbrica che non c’era” (il perché di questo appellativo è troppo lungo qui da spiegare) riprendeva vita insieme ai suoi operai. Fu molto di più di un libro: ad un certo punto, quando ad esempio riunimmo i componenti del Consiglio di fabbrica, addirittura si tramutò una specie di seduta di analisi collettiva. Per me poi, che la fabbrica l’avevo conosciuta attraverso i racconti di mio padre, quei mesi trascorsi fianco a fianco furono molto di più. E lui credo lo avesse capito. Che quelle cose che scrivevamo, che le cassette che registravamo e sbobinavamo facevano in fondo parte anche della mia storia e non erano solo una delle tante ricerche che all’inizio si fanno solo per “imparare il mestiere”. Quel lavoro non è stato l’unico che abbiamo fatto insieme. Ma ha davvero significato molto per me.

Mi accorgo adesso quanto sia difficile far capire a chi non lo abbia mai incontrato in poche parole e senza retorica (che lui giustamente odiava) chi fosse, anzi, chi è Luigi Falossi. Operaio metalmeccanico, sindacalista, intellettuale. Un Operaio di quelli con la O maiuscola, che leggono, studiano, lottano e s’incazzano. Di quelli con pochi fronzoli, prendere o lasciare. Che vogliono capire. Che sono attenti al passato ma che guardano – ma sul serio però – sempre avanti. Che sempre e fino all’ultimo sono una miniera d’idee e di progetti. Che non gliene frega niente chi sei o chi ti credi di essere. Di quelli che quando ti nasce un figlio vengono da te e quasi timidamente, scherzandoci su, ti regalano Un genitore quasi perfetto (ce l’ho ancora quel libro, sai?). Che magari ti rimbrottano al telefono perché è un pezzo che non ti fai vedere ma che lo capisci che ti vogliono bene. Di quelli che non si arrendono nonostante tutto. Che forse non ce ne sono più. E non ne nascono più.

Volevo dirti grazie, Gigi.

E che fra poco passo a salutarti.